Il 25 e 26 giugno 2006 si svolgerà in Italia la consultazione referendaria per l’approvazione del testo della legge costituzionale recante “Modifiche alla Parte II della Costituzione”. In sostanza gli elettori saranno chiamati ancora una volta alle urne per confermare o cassare la cosiddetta “devolution” tanto sognata da Bossi.
La consultazione popolare del 25 e 26 giugno 2006 costituisce il secondo appuntamento degli italiani con il voto per un referendum confermativo, dopo quello del 7 ottobre 2001 sulla riforma del Titolo V della Costituzione introdotta dalla legge costituzionale n. 3 del 2001. Tutti gli altri referendum che si sono svolti dal 1974 ad oggi, sono stati infatti "abrogativi" di leggi ordinarie, in applicazione dell'art. 75 della Costituzione. Il primo fu quello sul divorzio, nel 1974. Il referendum confermativo è invece previsto dall'art. 138 della Costituzione che regola la revisione costituzionale. Il secondo comma stabilisce infatti che le leggi costituzionali, qualora non siano approvate al secondo passaggio con una maggioranza dei due terzi dei componenti in ciascuna delle due Camere, "sono sottoposte a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto di una Camera o 500mila elettori o cinque Consigli regionali". E precisa: "la legge sottoposta a referendum non e' promulgata se non e' approvata dalla maggioranza dei voti validi". Per questo tipo di referendum, dunque, contrariamente a quello abrogativo, la legge applicativa del 1970 non prevede la necessità di raggiungere un quorum di votanti. Quattro i punti da segnalare, quattro motivi che dovrebbero spingere l’elettorato a riflettere bene sulla scelta di confermare o eliminare una legge che cambierebbe l’assetto istituzionale modificando il ruolo, i compiti e le competenze del Presidente del Consiglio, del Presidente della Repubblica, e che interverrebbe in modo sostanziale anche nel rapporti Stato-Regioni propugnando il federalismo tanto caro alla Lega di Bossi.
Il primo punto riguarda una rivoluzione legislativa: infatti il nuovo testo suddivide le leggi emanate dal Parlamento in tre diverse categorie: quelle votate solo dalla Camera, quelle votate solo dal Senato e quelle che dovranno essere approvate da entrambi i rami del parlamento. Un intrico di commissioni e commissioncine avrà l'incarico di dirimere i casi, più che probabili, di dubbia attribuzione. Vi saranno inoltre provvedimenti di un quarto tipo: quelli che, essendo ritenuti essenziali per l'attuazione del programma di governo, potranno essere varati nonostante il voto contrario del Senato, alla condizione di avere ottenuto l'approvazione della maggioranza assoluta della Camera. Chiaro per tutti? Forse no, ma ciò che risulta veramente chiaro è la confusione legislativa che si verrà a creare.
Il secondo punto riguarda la figura del Primo ministro al quale saranno attribuiti poteri, forse, eccessivi. Infatti "nella Corte Costituzionale aumenteranno i membri di nomina parlamentare, con conseguente riduzione dell’autonomia rispetto al potere politico. Nel Consiglio superiore della magistratura potranno essere nominati dal parlamento anche personalità puramente politiche, senza alcun vincolo di competenza giuridica, il che ne svilirà l'autorevolezza".
Quanto al Presidente della Repubblica, "gli verrà tolta l'attribuzione di sciogliere le camere, dunque la sua figura risulterà fortemente indebolita. Il potere di concludere anticipatamente la legislatura viene di fatto consegnato al Primo ministro. È pur vero che la Camera ha la possibilità di designarne un altro, ma solo con l'appoggio dell'originale maggioranza. I voti dei deputati dell'opposizione, quindi, non avranno più lo stesso valore di quelli della maggioranza: anche in Parlamento i voti andranno pesati e non contati. Il potere del Primo ministro risulterà enormemente aumentato e libero da qualsiasi "contrappeso”.
E veniamo al terzo punto della questione. Si sottopone all’attenzione dell’elettore la seguente “prospettiva federale”:
“L’ordinamento evolve in senso federale, come sta avvenendo in molti Stati moderni: viene riequilibrato il riparto delle competenze tra Stato e Regioni per garantire migliori servizi ai cittadini, senza compromettere l’unità del Paese. Alle Regioni vengono devolute particolari funzioni in materia di istruzione, sanità e polizia locale. Tutte avranno le stesse opportunità, senza penalizzazioni per alcune aree rispetto ad altre e senza la differenziazione tra le Regioni, prevista dalla riforma del 2001. Si avrà quindi un federalismo equo, solidale ed equilibrato”.
Ma si può obiettare, come fa Leopoldo Elia, che “la devoluzione alle regioni di particolari funzioni in materia di istruzione, sanità e sicurezza è pericolosa perché dà luogo ad una competenza esclusiva dello Stato e delle Regioni nelle stesse materie. Tale duplicità è illogica e può arrecare gravi danni anche all’esercizio (o godimento) di diritti fondamentali (livelli essenziali delle prestazioni da garantire su tutto il territorio nazionale). Si avrà quindi un federalismo iniquo, conflittuale e squilibrato”. In altri termini la riforma "introdurrà disparità di diritti tra cittadini di regioni diverse. "Quando la devolution sottrarrà risorse e possibilità operative alle Regioni in materia di salute, scuola, assistenza, fiscalità e servizi pubblici in generale, ci saranno Regioni di serie A e di serie B. Ciò porterà gravi disuguaglianze, "migrazioni" e pendolarismi verso le città e le Regioni che offriranno il miglior servizio".
Quarto punto: a conti fatti questa devolution "aumenterà i costi di gestione ed ingigantirà la burocrazia" perché "la moltiplicazione degli uffici, il caos amministrativo legato ai conflitti di competenze tra stato e regioni, la diminuzione del controllo centralizzato su assunzioni, appalti ed opere pubbliche produrranno un'esplosione delle spese ed un aumento delle clientele".
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